Nel dibattito politico delle ultime settimane ha preso sempre maggior forza la questione delle riforme istituzionali, fortemente legata a quella della legge elettorale, del Senato e del Titolo V. Come sempre, il dibattito pubblico si concentra su questioni maggiormente “digestibili” per l’elettorato – leggasi elezione diretta/indiretta, immunità, preferenze ecc. -, tendendo in questo modo a guardare il dito e non la luna. Un aspetto importante, però, è rappresentato dalla valutazione sulla spendibilità di queste in sede europea come prova della bontà e della serietà del presente Governo.

Troppo spesso risultanti di un sempre e puro slogan (“faremo le riforme”), ormai accostabili ad un’etichetta priva di contenuto, si continua a non capire quale sia il filo comune che lega legge elettorale, Senato e Titolo V (dando per scontato che il processo riformista delle tre debba andare di pari passo), mancando una visione organica e comune. Ciononostante le prime pagine continuano ad essere piene di articoli su incontri (incontri saltati), streaming, punti in comune ecc. La confusione regna sovrana, così come le divisioni interne a partiti e maggioranza, a causa dei noti problemi. Ma le famose scadenze si avvicinano: secondo quanto si apprende, il testo della riforma del Senato dovrebbe andare fuoriuscire dalla Commissione e andare in Aula entro mercoledì.
L’urgenza di portare a casa (a Roma così come a Bruxelles) risultati forti, concreti e tangibili si fa sempre più pressante, vista anche la pochezza delle altre “riforme” annunciate e poi attuate solo in parte o rimandate a data da destinarsi (anche qui a causa dei noti problemi). Quando si parla di legge elettorale, Senato e Titolo V, infatti, si parla delle regole del gioco istituzionale che hanno fortissime conseguenze sul versante economico, troppo spesso sottovalutate, e che servono a garantire governabilità, rappresentanza e razionalità legislativa. In una parola: certezza del diritto. Tutti aspetti in cui il nostro Paese ha abbondantemente dimostrato di essere deficitario.
Il Ministro dell’Economia, Padoan, intervistato ieri dal Corriere, con ogni probabilità si riferiva anche a quanto accennato poco sopra quando parlava della “deviazione temporanea dal sentiero di convergenza verso il pareggio strutturale” ammessa “ove un Paese implementi le riforme strutturali“; aggiungendo anche che “questo insieme di regole è recente e in fase sperimentale. Ma il presidente Barroso qui a Roma l’ha detto con chiarezza sorprendente: il Paese che implementa, dico implementa, le riforme strutturali ha un costo nel breve termine, dunque ha bisogno di più tempo per raggiungere gli obiettivi“. Naturalmente, resta da definire il tutt’altro che marginale dettaglio del “quanto, in che modo ed in che tempi“, soprattutto quando si parla di concetti così difficilmente “economicizzabili”.
La questione, sostenuta in molte uscite pubbliche da Renzi, è però sul tavolo. Ad ogni modo, risulta ancora ben difficile – come sottolineato sempre da Padoan nell’intervista – sradicare quel clima di diffidenza (“perché viene posta ora sul tavolo la questione della misurabilità delle riforme?“) che circonda il nostro Paese; dato anche che, ad oggi, non è chiaro quale sia la strategia perseguita dal governo in sede europea: dallo sforamento del 3% a fronte di riforme si è passati al concetto di flessibilità nel rispetto degli impegni, dallo scomputo degli investimenti produttivi si è passati a quello del cofinanziamento, dal rimando del pareggio strutturale si passati, infine, al tema della misurabilità delle riforme. Questa indecisione sembra riflettere in parte anche le diverse opinioni di Presidenza del Consiglio e Ministero dell’Economia sul tema, con quest’ultimo improntato verso un maggiore realismo.
Ad ora, infatti, vista la tortuosità e la lunghezza del processo di implementazione delle riforme istituzionali, non si capisce come questo possa essere ritenuto prova di sufficiente serietà. La strada, quindi, continua ad essere lunga ed in salita.


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