Ancora prima che Germano Celant teorizzasse l’Arte Povera nel ’67, un vento di opposizione in linea con lo spirito critico degli anni Sessanta, invade quel sistema dell’arte saldamente ancorato ad una società che produce e consuma. Chiunque può criticare, dissacrare e polemizzare, a patto di sacrificare ogni libertà. Funziona grossomodo così: il sistema impone e l’uomo recita la sua parte, l’artista, affetto da straripante deferenza, individua un’idea, la fissa, vive per lei. Il suo unico obiettivo è soddisfare il mercato, in uno scenario di totale assuefazione tra linguaggi codificati e programmi prestabiliti. L’unico punto di rottura con la tradizione è segnato proprio dall’Arte Povera, un movimento mosso dal desiderio di esplorare nuovi mondi, rifiutare l’idea di concepire l’opera come fatto chiuso e definito, rigido e fisso. L’opera d’arte deve essere aperta, vivente e, di fronte alla partecipazione di tutti, sempre in divenire. In altre parole, la rivoluzione è cominciata.

Pistoletto, Boetti, Paolini e Pascali sono solo alcuni dei nomi che iniziano ad esporre con un linguaggio totalmente diverso, ricorrendo all’istallazione e all’azione performativa come esperienza viva e socializzante. C’è Paolini che inscena una conversazione tra due busti di età classica posti uno di fronte all’altro (“Mimesis”), Giovanni Anselmo che con “Scultura che mangia” impone una realtà sovratemporale e trascendente, o ancora Kounellis che fa uso di oggetti viventi, fissando un pappagallo su una tela dipinta. E nel percorso che dimostra quanto l’Arte Povera sia capace di adattarsi a qualsiasi tipo di architettura e di ambiente, naturale e artificiale, spaziando tra chiese e fabbriche, pianure e montagne, va ad inserirsi l’opera di Giuseppe Penone, che nel suo percorso artistico ha indagato costantemente su ogni possibile rapporto tra uomo e natura, sondando le occasioni per modificarla, interagire con essa, fino ad intervenire, per esempio, nel processo di crescita degli alberi. “Gli alberi per me – spiega infatti Penone – sono un’idea di scultura perfetta, se si pensa che sono esseri viventi che fossilizzano il loro vissuto nella loro forma, e che ogni singola foglia, ogni singolo ramo c’è per una necessità legata alla sopravvivenza, alla vita; non c’è nulla di casuale nell’albero né in eccesso né in difetto, la sua forma è esattamente quello che gli serve per vivere. Ogni luogo ha un suo carattere, tutto sta accoglierlo.”
Dopo Versailles a Parigi, Venaria a Torino e Villa Medici a Roma, le possenti opere di Giuseppe Penone trovano dimora nella suggestiva cornice di Forte di Belvedere e il Giardino di Boboli a Firenze, per un grande progetto espositivo dedicato alle sacrali percezioni che vedono l’uomo costantemente in dialogo con la natura e il paesaggio. “Prospettiva Vegetale”, questo il titolo della mostra, nata dalla collaborazione tra il comune di Firenze e la Soprintendenza per il Polo Museale fiorentino, coinvolgerà fino al 5 ottobre, una serie di opere in bronzo e marmo, che di livello in livello, collegano il giardino con la fortezza. Protagonisti assoluti saranno gli alberi di bronzo, squarciati da un fulmine, dorato o con pietre di fiume depositate tra i rami, a opporre la loro presenza plastica e la mente che le ha forgiate. Le Anatomie di marmo invece faranno emergere venature minerali e antropomorfiche, e insieme agli alberi, simbolo della terra cui tutto appartiene, riporteranno alla luce la maestria degli interventi innestati magistralmente in un percorso inedito che porta la firma di Arabella Natalini e Sergio Risaliti. “Nella storia recente – spiega a tal proposito il curatore – nessun artefice aveva avuto tale onore, nessuno aveva osato tale progetto disegnato simile poetico percorso. Per la prima volta un artista ha istallato le sue sculture contemporaneamente al Forte di Belvedere e nel Giardino di Boboli. Nelle sue diverse postazioni il tracciato apre a una variata molteplicità di scorci e prospettive, di panorami e visuali tra i due contesti urbano e paesaggistico, su Firenze e il suo patrimonio architettonico.”

Tra le diverse opere in esposizione spicca la suggestiva “Luci e ombre”, considerata l’esempio lampante del fil rouge dell’intera mostra. Posizionato davanti all’Anfiteatro del Giardino di Boboli, un albero dalle venature in bronzo, con autunnali foglie color oro, custodisce un’enorme sfera in granito, chiaro richiamo alla globalità dell’esistenza nella suggestiva contrapposizione di luce piena e abisso. “L’albero va verso il cielo, e la chioma nella sua forma ampia e sferica è un elemento vivo che si allarga e cresce per accogliere il massimo della luce. Ecco il perché della doratura che ho messo sulle foglie. Il bronzo invece è un elemento collegato alla forza di gravità che porta giù verso la profondità della terra. Verso il buio”, specifica l’artista.
In un percorso dove il tempo sembra riappropriarsi di una dignità ben lontana dal compiacere il mercato e i suoi sistemi, Giuseppe Penone innesta simboli e dispone creature a tratti naturali, a volte artificiali, ma pur sempre vive, con la sola missione di esortare la natura a rivelare i suoi segreti più reconditi.
Simone Di Dato
Ultimi post di Simone Di Dato (vedi tutti)
- “Dentro Caravaggio”: indagini diagnostiche e nuovi documenti in mostra a Milano - 27/07/2017
- Oltre il mito: Frida Kahlo in mostra a Milano - 06/06/2017
- Sogno e colore: Joan Mirò in mostra a Bologna - 17/05/2017
- Stanze d’artista. Capolavori del ’900 italiano in mostra a Roma - 28/04/2017
- Da Caravaggio a Bernini. Il Seicento italiano nelle collezioni reali di Spagna - 05/04/2017