Con la fine della seconda guerra mondiale e con il declino del regime fascista, l’Italia fu travolta da una grande voglia di cambiamento e innovazione. Il popolo divenne ansioso di rompere con il passato, attuando una rivoluzione totale, sia in campo culturale che politico. I registi si fecero portavoce di quella che fu definita la “primavera italiana”, scrivendo un capitolo fondamentale nella storia del cinema: il neorealismo.
In passato, la produzione nostrana si era contraddistinta per le sue maestose scenografie in studio, ma Cinecittà, divenuta inagibile a causa dei forti danni causati dalla guerra, venne abbandonata, mentre si iniziò a girare le pellicole in esterno. Fu lasciata alle spalle anche la finzione cinematografica, per passare ad un realismo capace di evocare i problemi del quotidiano, causati dalla guerra appena conclusa. I primi film neorealisti, erano incentrati proprio sul grande conflitto appena terminato, ma da pellicole come Roma città aperta di Roberto Rossellini, si passò presto ai problemi sociali contemporanei, come in Ladri di biciclette, diretto da Vittorio de Sica e scritto da Cesare Zavattini. L’obiettivo era quello di scoprire la realtà, coinvolgendo il pubblico, chiamato a svolgere un ruolo attivo e consapevole.
Il neorealismo non ebbe mai un vero e proprio manifesto, il movimento si basò solo sulla voglia di mostrare maggiore realismo, concentrandosi sui soggetti contemporanei e sulla vita della classe operaia. Il critico cinematografico francese André Bazin evidenziò come la corrente artistica fu in grado di rendere gli spettatori coscienti sulla bellezza del quotidiano. Cesare Zavattini, sceneggiatore e teorico cinematografico, fu il sostenitore di una certa estetica nell’ambito del neorealismo. Dopo la fine del movimento, sottolineò come questo non si identificava con il gruppo di opere e di cineasti che lavoravano dopo la guerra, ma con un’idea di cinema che, in realtà, non si era riuscita a realizzare completamente.
Il soggetto non si contraddistingue solo per i temi affrontati, ma anche per l’aver portato delle notevoli innovazioni stilistiche. Anzitutto, si diffuse la pratica di amalgamare grandi attori ad attori di strada, spesso anche a gente comune. Nelle pellicole è sempre presente la coincidenza della vita e la pellicola tende ad appiattire gli eventi a tal punto che spesso, le storie, non hanno delle conclusioni molto chiare. I film sono caratterizzati da continui cambiamenti emozionali, i toni mutano repentinamente, passando da scene leggere a scene drammatiche. Lo spettatore si ritrovava di fronte a trame, prive di un nesso causale, perdendo la distinzione da scene madri a momenti di passaggio. Il prodotto del neorealismo appiattisce tutti gli eventi su un unico livello.
Tale ventata di novità fu mal digerita dalla politica e della chiesa, a causa del forte pessimismo che esprimevano le pellicole, mentre l’Italia cercava di percorrere la vita della democrazia e della prosperità. Furono pochi i film apprezzati dal pubblico, che continuava a preferire le produzioni statunitensi. Giulio Andreotti riuscì ad invertire questa sconveniente tendenza, fissando dei limiti alle importazioni e istituendo dei prestiti alle case di produzioni italiane, prestiti che erano più ingenti se si trattava di film commerciali, creando dunque un forte controllo sulle produzioni.
All’inizio dei anni cinquanta, la stagione neorealista era già terminata. Essa subì un arresto, per favorire la nascita di un genere più leggero, che aveva abbandonato la forte connotazione drammatica: il cosiddetto “neorealismo rosa”, precursore di quella che sarà la commedia all’italiana.

Jacopo Mercuro

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