Nel corso degli anni 30, i regimi totalitari sorti in Germania, Unione Sovietica ed Italia, consapevoli della potenza del cinema come mezzo propagandistico, presero il controllo delle rispettive industrie cinematografiche. L’Unione Sovietica s’irrigidì immediatamente, nazionalizzando tutte le cinematografie del paese. La Germania, che credeva in una politica capitalista, non confiscò le varie case di produzione, ma ne ottenne comunque il controllo, acquistandole “pacificamente”. In Italia, il partito fascista sosteneva economicamente le aziende, attuando una forte censura, ma senza mai nazionalizzarle.
L’unione sovietica e il realismo socialista – In Unione Sovietica, nel 1930, si avviò una manovra per trasformare l’industria cinematografica in un’unica società controllata dallo stato (Sojuzkino), ma a causa della grande depressione, il progetto si realizzò a pieno solo nel 1936.

L’avvento del sonoro fu immediatamente visto come un nemico dello stile che aveva dato forma al realismo socialista introdotto nel 1934, principio che consisteva nel seguire le regole del partito comunista. Le teorie del montaggio sovietico vennero aspramente criticate, e vennero messi alla porta cineasti come Ėjzenštejn e Kulesov, costretti ad ammettere di aver “sbagliato” nei lavori precedenti.
Boris Sumjatskij, inizialmente tra i fedeli di Stalin, aveva il compito di controllare l’intero apparato cinematografico, e per lungo tempo cercò di creare una Hollywood sovietica basata su un cinema popolare. Il progetto di Sumjatskij fallì miseramente: furono prodotti pochi film, di bassa qualità. A causa del grande spreco di denaro, Sumjatskij finì per essere giustiziato.
Il realismo socialista aveva il compito di diffondere, in maniera propagandistica, i dogmi del partito comunista. Il popolo era l’unico protagonista delle storie, e la situazione del paese doveva essere sempre mostrata con uno sguardo ottimista. Lo stile tecnico fu notevolmente trascurato, il cinema doveva essere solo un’arma al servizio del partito. Le storie dei film erano incentrate sulla guerra civile, sulla vita di eroi comuni e – durante lo scoppio della seconda guerra mondiale – sul nemico nazista dipinto nel pieno della sua brutalità.
La Germania nelle mani naziste – L’industria cinematografica tedesca continuava ad essere la più avanzata a livello europeo. Nel 1929 creò un metodo alternativo al cinema sonoro americano; i due stati, dopo un’iniziale concorrenza, trovarono un accordo, spartendosi le aree da rifornire fino al 1939.
Nel 1933 la Germania cadde nelle mani del partito nazista. Adolf Hitler, era un vero amante del cinema, come il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels. Prevedibilmente, la nuova politica mise alle porte i registi di religione ebraica, di sinistra e liberali, costretti ad emigrare negli Stati Uniti.
Il governo tedesco nazionalizzò l’industria attraverso l’acquisto di tutte le case di produzione, unite nella neonata UFI. La cosa fece precipitare ai minimi storici le importazioni e le esportazioni cinematografiche. Le manovre attuate, poi, portarono ad un declino produttivo, poiché il numero di film non riusciva a soddisfare la richiesta. Anche la Germania, come l’Unione Sovietica, si serviva del cinema per diffondere la sua propaganda, mostrando la forza e l’affidabilità della macchina nazista.

L’Italia del periodo fascista – Nel corso degli anni venti il cinema italiano provò a ripercorrere le strade di successo già battute prima della guerra. I ripetuti insuccessi nel riproporre i peplum (i classici film storici in costume), simili al passato, fecero capire subito che non poteva essere quella la via da percorrere.
Benito Mussolini, salito al potere nel 1922, conosceva bene la potenza del cinema, ma inizialmente decise di non prenderne il controllo, limitandosi a creare l’Istituto Luce, con lo scopo di avere dalla sua parte documentari e cinegiornali. La politica fascista tendeva a non toccare gli interessi privati, fintanto che non si opponevano a quelli del partito: è per questo motivo che fu fornita assistenza economica al cinema, senza che fosse nazionalizzato.
Il governo cercò di rianimare un’industria in piena crisi, obbligando le sale a proiettare un determinato numero di film nazionali, tassando quelli stranieri e istituendo festival come la Mostra del Cinema di Venezia. Gli studi della Cines furono sostituiti da quelli di Cinecittà, un moderno complesso di teatri: un fiore all’occhiello capace di ospitare anche i registi d’oltreoceano. Grazie all’intervento statale, l’industria ottenne una grande ripresa economica.
Anche in Italia, come negli altri regimi totalitari, non mancavano le pellicole che esaltavano e glorificavano il partito. Spesso, questi film rappresentavano un vero insuccesso e il partito non sempre si riconosceva in ciò che vedeva, motivo per cui si decise di puntare solo ad un cinema di evasione.
Rispetto agli altri regimi, il cinema italiano godeva di grande autonomia. L’assenza di una rigida censura permise lo sviluppo di una corrente antifascista, che favorì delle nuove istanze artistiche. I nuovi aspiranti registi, influenzati dal montaggio sovietico e dal realismo poetico francese, crearono una tendenza che voleva arrivare ad un nuovo realismo. L’industria cinematografica subì una flessione solo durante la guerra, e che finì nel 1945; la fine del conflitto e la resistenza furono le fonti primarie di quello che sarà un genere apprezzato in tutto il mondo: il neorealismo.

Jacopo Mercuro

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